È il momento della resa dei conti. L’aria è immobile, il cielo sospeso sopra una scena intrisa di dolore e rabbia. Mualla avanza lentamente, con il volto contratto e gli occhi infuocati da una determinazione che non conosce più il perdono. Tra le mani stringe la pistola come se fosse il peso stesso della sua vendetta. Davanti a lei, Zeliş vacilla. Ogni passo che Mualla compie è una sentenza, un giudizio definitivo. Zeliş retrocede, tremando, incapace di respirare, consapevole che non ci sarà salvezza.
Le due donne si fronteggiano come due statue scolpite nella disperazione. Zeliş tenta di parlare, ma la voce le muore in gola. È sola. Nessuno arriverà. Nessuno la salverà. Mualla, invece, è circondata dai suoi uomini, schierati in silenzio dietro di lei come ombre fedeli. Lei non ha bisogno di gridare: la sua autorità è assoluta. Quando parla, ogni parola è una lama affilata che affonda nel cuore della sua nemica.
Zeliş, stravolta, cerca disperatamente un’uscita. Le mani tremano mentre estrae una pistola dalla giacca. È un gesto impulsivo, disperato. Il cuore le martella nel petto, la paura le toglie il fiato. Non è pronta a uccidere, ma nemmeno a morire. Eppure, Mualla resta immobile, imperturbabile. La guarda con disprezzo, sicura che Zeliş non troverà mai il coraggio di premere il grilletto. Ed è così. Zeliş vacilla. Le braccia si indeboliscono, le lacrime le offuscano la vista.
Poi accade: un’ombra si muove. La guardia del corpo di Mualla le afferra il polso con precisione fulminea, la pistola le cade dalla mano e finisce nella sabbia. Tutto è finito. L’ultima resistenza si dissolve nel vento. Zeliş resta lì, impotente, le mani vuote, il cuore colmo di panico. È finita. Mualla si avvicina con lentezza glaciale, come una dea vendicatrice. Nei suoi occhi non c’è esitazione. Solo vendetta.
Zeliş è paralizzata, sfinita. Non ha più niente. Nemmeno la forza di illudersi. Mualla raccoglie l’arma con calma gelida. Il suo sguardo è quello di una madre che ha perso tutto, di una donna a cui è stato strappato il figlio. Ora, nella sua testa, esiste solo un obiettivo: vendicare Beram.
Senza una parola, punta la pistola alla testa di Zeliş. La canna è fredda, implacabile. Zeliş cerca di parlare, di supplicare, ma Mualla la zittisce con uno sguardo tagliente, più potente di mille frasi. È la fine. Zeliş lo sa. Chiude gli occhi. Attende il colpo. Un attimo eterno di silenzio, poi…
Uno sparo. Ma non la colpisce. Il proiettile fende il cielo. Poi un altro. Mualla ha sparato verso l’alto, come a urlare il suo dolore all’universo. Non l’ha uccisa. Non ancora. Zeliş apre gli occhi, incredula. È viva. Il petto le si solleva a fatica, il cuore corre impazzito. È viva. Ma per quanto ancora?
Il silenzio dopo gli spari è pesante, irreale. Mualla è ferma, la pistola ancora in mano. La rabbia è lì, intatta, ma qualcosa l’ha fermata. O forse no. Forse ha solo rimandato la condanna.
All’improvviso, un rombo di motore. Un taxi si ferma bruscamente, alzando sabbia e tensione. La portiera si apre di colpo. Ne esce una figura disperata: İlknur, la madre di Zeliş. Scalza, con i piedi feriti e l’anima lacerata dalla paura, corre verso la scena. Corre senza esitazione, senza logica, solo guidata dall’amore per sua figlia.
E ciò che vede la distrugge: Zeliş in ginocchio, devastata, e davanti a lei Mualla, implacabile, con la pistola ancora puntata alla testa della ragazza. Il tempo si blocca. İlknur inciampa, cade, si rialza con le ginocchia insanguinate. Le mani sporche di sabbia, il volto stravolto, si getta ai piedi di Mualla. Implora. Piange. Si annulla.
Le sue labbra sussurrano preghiere disperate. Ogni fibra del suo corpo implora pietà. Bacia la sabbia, allunga le mani verso quella donna armata come verso un dio spietato. Si inginocchia, poi si piega ancora, si prostra, si dissolve nella supplica. Non c’è più orgoglio, non c’è più dignità. Solo amore. Solo il desiderio di salvare sua figlia.
Mualla la osserva dall’alto. Non dice nulla. Il volto è immobile, la pistola ancora carica, ancora tesa. Nei suoi occhi, un abisso. Non c’è compassione. Non c’è pietà. Solo il dolore bruciante di chi ha perso un figlio. E davanti a lei, una madre in ginocchio che cerca di salvare l’unica cosa che le è rimasta.
La scena è surreale. Una donna armata. Una madre disperata ai suoi piedi. Una figlia in ginocchio, come offerta sacrificale. Il mare muto sullo sfondo. Il vento che si placa, come se anche la natura stessa trattenesse il fiato.
Mualla è lì, ferma, incerta. Ma la pistola è ancora nella sua mano. Carica non solo di proiettili, ma di tutto l’odio e il dolore che ha accumulato. Il destino di Zeliş pende da un filo sottile. E quel filo è il cuore devastato di una madre che ha perso tutto… e che ora potrebbe decidere se far morire o vivere. Ma la pietà, in Tradimento, è merce rara. E il finale è ancora tutto da scrivere.