“Non era più un servo. Era un erede nascosto… ed era giunta l’ora di reclamare ciò che gli spettava.”
I muri di pietra della tenuta La Promessa erano impregnati di silenzi e misteri. Custodivano segreti antichi, sporchi, pericolosi. Segreti capaci di far tremare le fondamenta stesse di quella casa. Curro, che un tempo percorreva quei corridoi come figlio del marchese, era stato ridotto al ruolo di servitore. O almeno, era quello che tutti volevano fargli credere. Ma sotto ogni sguardo altezzoso, sotto ogni parola che cercava di umiliarlo, batteva ancora il sangue dei Luján.
E Lisandro, il Duca di Carril, lo sapeva. Oh, se lo sapeva.
Ogni loro incontro era una partita a scacchi. Una provocazione dopo l’altra, studiata con precisione chirurgica. Quella mattina, mentre Curro lucidava un’armatura con le mani sporche di cera, Lisandro scese le scale con la sicurezza di un imperatore decaduto. “In piedi, anche se privo di preparazione… commovente,” disse con quel suo veleno travestito da cortesia. Ma Curro non era più lo stesso. Non tremava più, non abbassava gli occhi.
Inspirò profondamente, come gli aveva insegnato Pía. Poi sollevò lo sguardo e rispose: “Se sei venuto a provocare, gira i tacchi.” Una frase semplice, ma tagliente come un rasoio. Lisandro si irrigidì. Il suo orgoglio, colpito in pieno petto, vacillò per un attimo.
Ciò che seguì fu un duello silenzioso, senza spade, ma con parole affilate come lame. Lisandro parlò di “aggiustamenti inevitabili”, di decisioni “da adulti”, e lanciò il suo veleno più puro: “I figli bastardi non dovrebbero parlare.” Ma Curro non cadde. Si limitò a incassare… e a ricordare.
Qualche ora più tardi, il duca si ritirò in uno studio secondario, dimenticato da tutti tranne che da lui. Lì scrisse una lettera. Le sue parole erano fredde, calcolate, prive di emozione. Chiuse la busta con cera rossa, sigillata dal blasone del Ducato. Poi chiamò Ramiro, il cocchiere di fiducia, e gli consegnò la missiva: “Solo nelle mani di Alberto,” ordinò. Il nome cadde come un tuono nell’orecchio di chi, nascosto sulla scala di servizio, stava spiando.
Curro aveva visto tutto.
Scese le scale con passo deciso. Si parò davanti a Lisandro e pretese spiegazioni. Il duca, come sempre, reagì con scherno. “Vuoi correre da Alonso a piangere? Il bastardo chiede protezione?” Ma dietro il sarcasmo, disse anche una verità: Alberto era suo figlio, e voleva maritarlo con Ángela, la ragazza che rappresentava tutto per Curro.
Fu un colpo basso. Un colpo al cuore. Ma Curro non si spezzò. Non più.
Corse in cucina. Là trovò Pía, il suo punto fermo, la sua confidente. “Sta tramando qualcosa. L’ho visto. L’ho sentito dire che la mia ora stava arrivando.” Pía lo ascoltò, lo abbracciò, gli credette. “Stai molto attento, Curro,” gli sussurrò. “Sappiamo di cosa è capace Lisandro.”
E quello che stava per accadere era lo scontro finale.
Lisandro non sapeva che non aveva più il controllo. Credeva che quella lettera segreta fosse al sicuro. Ma Curro l’aveva intercettata. Curro aveva aperto gli occhi. Aveva capito che il suo lignaggio non era una vergogna… ma una forza.
Per troppo tempo era stato schiacciato da un ruolo che non gli apparteneva. Per troppo tempo aveva chinato il capo davanti a uomini come Lisandro. Ma ora, quel tempo era finito.
I corridoi della Promessa non sarebbero più stati percorsi da lui come un servo umile, ma come l’erede legittimo di una storia che cercavano di cancellare.
La battaglia non era finita, ma la prima vittoria era sua.