ATTENZIONE SPOILER! Preparatevi a un capitolo di pura adrenalina, rivelazioni scioccanti e alleanze in bilico! A “La Promessa”, la verità esploderà il 19 giugno, mettendo a ferro e fuoco il delicato equilibrio del palazzo.
Una Confessione Imprudente e le Sue Conseguenze
L’aria nell’hangar è densa di tensione mentre Curro de la Mata (o chi il mondo conosce come tale) si trova di fronte a Esmeralda Llop, la direttrice della gioielleria. L’incontro, apparentemente innocuo e legato alla sicurezza di uno smeraldo, si trasforma rapidamente in un confronto epocale. Curro ha osservato Esmeralda, analizzando ogni sua espressione. Sa che è intelligente, perspicace. Mentirle sarebbe un insulto e un rischio incalcolabile. Dopo una notte insonne di tormentata riflessione, decide di fare il salto nel buio.
“Signorina Llop… Esmeralda…”, comincia Curro, la sua voce un sussurro rauco, “Quello che sto per dirle cambierà completamente la natura della nostra relazione. E ho bisogno, la prego, che mi ascolti fino alla fine prima di giudicare, prima di agire.”
Esmeralda inarca un sopracciglio, la sua postura si irrigidisce. Incrocia le braccia in un gesto di autodifesa. “Signorino De la Mata, mi sta spaventando. Credevo che avremmo parlato della valutazione finale del gioiello e delle misure per evitare un altro tentativo di furto.”
“Ne parleremo, sì,” afferma Curro, facendo un passo cauto verso di lei. “Ma per capire perché quello smeraldo è così importante, e perché il veleno che quasi mi ha ucciso è collegato ad esso, lei ha bisogno di sapere con chi sta parlando in realtà.”
Il silenzio che segue è denso, pesante. Esmeralda lo guarda, i suoi occhi grigi, acuti come quelli di un rapace, scrutandogli il volto. “Credo di sapere perfettamente con chi sto parlando,” dice lentamente. “Con don Curro de la Mata, nipote dei marchesi de Luján.”
Curro scuote la testa, un sorriso amaro e triste che gli incurva le labbra. Il peso delle bugie che ha portato per anni si sente come un fardello fisico sulle sue spalle. “Questo è il nome che mi hanno dato. È il ruolo che ho interpretato. Ma non è chi sono.” Fa una pausa, deglutendo, raccogliendo il coraggio che ha visto in Jana, il coraggio che la sua vera madre deve aver avuto. “Il mio vero nome è Marcos Luján. Sono il figlio di Dolores, la domestica che è stata assassinata in questa tenuta più di quindici anni fa. Sono il fratello di Jana, la domestica che in questo momento serve in questo palazzo.“
L’impatto delle parole è visibile e devastante. La maschera di professionalità di Esmeralda va in frantumi. Le sue braccia cadono lungo i fianchi, la bocca si dischiude in un’esclamazione silenziosa. Il colore fugge dal suo viso, lasciandola con il pallore della cera. Sbatte le palpebre una, due, tre volte, come se cercasse di rimettere a fuoco l’immagine di Curro in quella del giovane aristocratico che conosceva, ma la confessione ha alterato la realtà in modo irreversibile.
“Questo… questo è impossibile,” balbetta, la sua voce tremante per la prima volta da quando si sono conosciuti. “È… una follia. Il figlio di una domestica? Fratello di…?”
“Di Jana, sì. La stessa che l’ha assistita quando è venuta la prima volta. Quella che le ha curato la ferita. Non è una coincidenza. Niente in questa casa lo è.”
Curro vede il turbine di emozioni nei suoi occhi: incredulità, paura, una scintilla di fascino. Sa di aver varcato il Rubicone. Ora non si torna indietro. Deve ancorarla alla sua causa, trasformare il suo stupore in complicità.
“Il veleno che mi hanno somministrato, la belladonna… non era per me, non per Curro de la Mata,” continua, la sua voce che acquista forza, intrisa dell’urgenza della sua verità. “Era per il figlio di Dolores, il bambino che è stato rapito il giorno in cui l’hanno uccisa. Qualcuno in questa casa sa chi sono. Qualcuno ha cercato di mettermi a tacere per sempre prima che potessi scoprire la verità. E quella stessa persona, o qualcuno a essa collegato, è chi ha orchestrato l’acquisto di quello smeraldo tramite lei.”
Esmeralda fa un passo indietro, inciampando in una vecchia cassetta degli attrezzi. Si appoggia a un’ala dell’aeroplano di Manuel, la sua respirazione affannosa. “Ma… perché? Cosa c’entra un gioiello con un omicidio di anni fa? Non ha alcun senso.”
“Non lo sappiamo ancora,” ammette Curro, avvicinandosi di nuovo, questa volta con le mani tese in un gesto di supplica. “Ma non può essere una coincidenza. La stessa persona che ha cercato di uccidermi è quella che insiste nel portare quel gioiello specifico a La Promessa, usando la sua gioielleria come intermediario. Ho bisogno di sapere chi è. Ho bisogno che lei mi aiuti. Lei è l’unico collegamento che abbiamo con il mondo esterno, l’unica che può risalire all’origine del denaro, all’identità dell’acquirente anonimo che si nasconde dietro quella richiesta.”
“Aiutarla?” ripete lei, la voce tinta di panico. “Si rende conto di cosa mi sta chiedendo? Mi sta coinvolgendo in un caso di omicidio! Quella gente è potente, pericolosa! Hanno cercato di uccidere lei, un membro della famiglia! Cosa pensa che farebbero a me, una semplice gioielliera?”
“Non è una semplice gioielliera, Esmeralda,” dice Curro, il suo sguardo intenso fisso nel suo. “È una donna coraggiosa e intelligente che si è trovata coinvolta in tutto questo senza volerlo. Ma ora che conosce la verità, ignorarla non la renderà più sicura. Al contrario. Se loro sospettano che lei sappia qualcosa, o che sia semplicemente un capo sciolto…” Lascia la minaccia sospesa nell’aria, una nuvola minacciosa che entrambi possono sentire.
L’hangar, che prima era un rifugio, ora sembra una trappola. Ogni ombra sembra nascondere una spia, ogni scricchiolio del legno è un passo di un assassino. Esmeralda si passa una mano sulla fronte, la sua mente che corre a una velocità vertiginosa. Il misterioso acquirente, l’insistenza su quello smeraldo specifico, l’attacco a Curro… I pezzi, prima sconnessi e strani, cominciano a incastrarsi in un mostruoso puzzle. Non è più un incarico peculiare, è l’epicentro di una cospirazione mortale.
“Chi altro lo sa?” chiede lei, il suo tono che passa dal panico a una fredda necessità di informazione.
“Mia sorella Jana. Il dottor Abel Bueno, che mi ha salvato la vita. E Manuel, mio cugino… beh, quello che credevo mio cugino, che ci aiuta come può. Siamo pochi. E siamo disperati.”
L’uso della parola “sorella” con tanta naturalezza, la menzione del suo vero nome… tutto questo colpisce Esmeralda con la forza della verità. La vulnerabilità negli occhi di Curro non è quella di un signorino capriccioso, è quella di un uomo che lotta per la sua vita e per la memoria di sua madre. La curiosità che l’aveva spinta a rimanere vicino a La Promessa si trasforma in qualcosa di più profondo: un misto di terrore e un innegabile senso di intrigo, quasi di responsabilità. È diventata, senza cercarlo, un pezzo chiave sulla scacchiera.
“Non posso prometterle niente,” dice finalmente, la sua voce ancora debole ma con una nuova sfumatura di determinazione. “Ho bisogno di pensare. Ho bisogno… di elaborare tutto questo. È troppo.”
“Si prenda il tempo che le serve,” risponde Curro, sentendo una minuscola ondata di sollievo. “Ma non si allontani. Non torni ancora a Madrid. Resti vicina. La sua presenza qui è la nostra migliore risorsa. Se l’acquirente la vede vicina alla famiglia, forse commetterà un errore, forse cercherà di contattarla di nuovo.”
Esmeralda annuisce lentamente, i suoi occhi grigi fissi in lontananza, come se potesse vedere i fili invisibili che ora la legano a quel palazzo di segreti. La sconsideratezza di Curro, la sua confessione disperata, non solo ha messo la sua stessa vita in un pericolo ancora maggiore, ma ha trascinato una sconosciuta nelle profondità della sua oscura ricerca. E ora, nessuno dei due può tornare indietro.
Ángela Crolla e la Crudeltà di Leocadia
Mentre la verità esplodeva nell’hangar, nei giardini del palazzo, il freddo si aggrappava alle ossa di Ángela con una tenacia crudele. Seduta su una panchina di pietra gelata, nascosta dietro un rampicante di edera appassita, la giovane tremava in modo incontrollabile. Un raffreddore virulento si era impossessato di lei, trasformando la sua sfida in una tortura fisica. Ogni boccata d’aria umida era come una coltellata nei suoi polmoni, e una febbre insidiosa le faceva vedere il mondo attraverso un velo nebbioso e distorto.
Si rifiutava di cedere. Tornare a Zurigo era una condanna a morte per il suo spirito, un esilio gelido e impersonale lontano da tutto ciò che amava, lontano dall’unica persona il cui affetto desiderava sopra ogni cosa: sua madre. Ma Leocadia, con il suo cuore di granito, vedeva nell’ostinazione di sua figlia non un grido d’amore, ma un atto di insubordinazione intollerabile. L’ordine era chiaro: Ángela doveva tornare in Svizzera, alla vita strutturata e senza emozioni che sua madre aveva progettato per lei.
La sfida di Ángela era una guerra di logoramento, e lei stava perdendo. Il suo corpo, indebolito da giorni di cattiva alimentazione e notti all’addiaccio, stava raggiungendo il limite. Fu allora che sentì un sussurro, un richiamo che attraversò la nebbia della sua febbre: “Ángela? Sei qui?”
Martina apparve tra gli arbusti, il suo volto una maschera di angoscia. La seguiva da vicino Curro, che, appena uscito dal suo cataclisma incontro con Esmeralda, portava la tensione impressa in ogni linea del suo volto. Vedere Ángela in quello stato gli provocò una fitta di dolore e rabbia. Era pallida, le sue labbra avevano una tinta bluastra e i suoi occhi, normalmente brillanti e pieni di vita, erano infossati e vitrei.
“Martina… Curro…” mormorò Ángela, cercando di abbozzare un sorriso che si trasformò in una smorfia di dolore seguita da un attacco di tosso che la piegò in due. Martina si inginocchiò accanto a lei, ignorando l’umidità del terreno. Le mise una mano sulla fronte. “Dio mio, stai bruciando!” esclamò, la sua voce tremante di panico. “Ángela, questo è andato troppo oltre. Devi entrare, devi metterti in un letto caldo. Ti prenderai una polmonite.”
“No… non posso,” rispose Ángela con un filo di voce, aggrappandosi al braccio di sua cugina come se fosse un’ancora. “Se entro… lei mi manderà via di nuovo. Preferisco… preferisco morire qui, nella mia casa, che vivere in quella gabbia dorata.”
Curro, osservando la scena, sentì un’ondata di impotenza. Srotolò una coperta di lana che aveva portato e la avvolse attorno alle spalle tremanti di Ángela. Le offrì anche un piccolo thermos con brodo caldo che Pía aveva preparato in segreto. “Ángela, ascoltami,” disse con una dolcezza che contrastava con la tempesta che portava dentro. “Lottare è coraggioso. Sfidare tua madre dimostra una forza che pochi hanno. Ma non puoi vincere questa battaglia se sei morta. Devi riprenderti, devi essere forte per poterla affrontare. Questa non è coraggiosità, è autodistruzione.”
Ángela bevve un sorso di brodo, il liquido caldo un effimero sollievo nella sua gola irritata. Le lacrime cominciarono a rotolare sulle sue guance gelide, mescolandosi al sudore della febbre. “Ma non capite?” singhiozzò. “Niente di quello che farò la intenerirà. Più soffro, più lei si rafforza nella sua decisione. Crede che questa sia una lezione, che il dolore mi renderà obbediente. Non c’è niente dentro di lei… solo ghiaccio.”
La disperazione nella sua voce era assoluta. Martina abbracciò sua cugina, sentendo il fragile tremito del suo corpo, e guardò Curro sopra la sua spalla, una supplica silenziosa nei suoi occhi. Stavano assistendo a un imminente crollo fisico, un suicidio al rallentatore spinto dalla crudeltà di una madre. E la donna responsabile di tutto ciò, Leocadia, probabilmente in quell’istante starebbe prendendo il tè in un salone riscaldato, la sua coscienza pulita e immacolata come i guanti bianchi che indossava sempre. L’ingiustizia era così palese, così mostruosa, che bruciava più del freddo stesso.
L’Intervento di Lorenzo e i Sospetti del Duca
Leocadia non stava prendendo il tè. Era in piedi accanto alla grande finestra del salone principale, osservando i giardini con uno sguardo impenetrabile. La sua postura era rigida, una statua di rettitudine e controllo. Non cercava Ángela; sapeva, a grandi linee, dove trovarla. Il suo sguardo era perso in lontananza, nei ricordi di un passato che aveva forgiato il suo presente d’acciaio. Per lei, l’amore non era tenerezza, era disciplina. La debolezza era il peccato originale, e il mondo, un luogo progettato per punirla senza pietà. Era convinta che la sua durezza fosse la forma più pura di protezione, uno scudo forgiato nel fuoco della sua stessa e amara esperienza.
Fu allora che una voce la tirò fuori dalle sue divagazioni, una voce untuosa e deliberatamente dolce che riusciva sempre a metterla in guardia. “Una vista magnifica, non è vero, Leocadia? Anche se la giornata è un po’ sgradevole. Un freddo che entra nelle ossa, specialmente per i più fragili.”
Lorenzo, il conte di Ayala, si era avvicinato senza fare rumore, un bicchiere di cognac in mano. Si fermò al suo fianco, imitando la sua posa e guardando anche lui verso l’esterno. Il commento era casuale, ma l’intenzione era affilata come uno stiletto. Leocadia non si girò. La sua voce, quando parlò, fu gelida: “La fragilità è una scelta, Lorenzo. O una conseguenza di cattive decisioni.”
“Oh, non ne sono così sicuro,” replicò lui, sorseggiando il suo drink. “A volte, la fragilità è semplicemente un segno che si è stati forti per troppo tempo. E a volte, quello che alcuni chiamano ‘cattive decisioni’, altri lo chiamerebbero un atto di straordinario coraggio.”
Ora Leocadia si girò per guardarlo, i suoi occhi scuri socchiusi con sospetto. “A cosa ti riferisci? Parla chiaro se hai qualcosa da dire. Detesto i giri di parole.”
Lorenzo sorrise, un sorriso che non raggiunse i suoi occhi. “Parlo di tua figlia, ovviamente. Di Ángela.” Fece una pausa drammatica, assaporando l’effetto delle sue parole. “Devo dire che la ragazza mi ha sorpreso. Ha un temperamento… uno spirito indomabile. Sfidare una donna del tuo carattere, Leocadia, non è un compito da codardi. Ci vuole una convinzione di ferro. È ammirevole.”
L’elogio a sua figlia fu, come Lorenzo intendeva, un’offesa diretta per Leocadia. Era un modo per dirle che la sua autorità veniva messa in discussione e, peggio ancora, che altri la vedevano come la cattiva della storia.
“Quello che tu chiami coraggio, io lo chiamo stupidità infantile,” sputò lei. “Sta mettendo a rischio la sua salute per un capriccio. Un capriccio che non intendo tollerare.”
“Un capriccio?” Lorenzo finse sorpresa, inarcando le sopracciglia. “A me sembra piuttosto un desiderio disperato di rimanere a casa sua, con la sua famiglia. È curioso come reagiamo quando cercano di strapparci dalle radici. Alcuni appassiscono in silenzio. Altri, come Ángela, preferiscono bruciare fino alle ceneri piuttosto che lasciarsi trapiantare. Mi ricorda me stesso in gioventù. Quella stessa scintilla di ribellione.”
La menzione di sé stesso fu la chiave. Lorenzo non mediava per pura bontà. La sua motivazione, come sempre, era un complesso cocktail di strategia e un barlume di genuina, seppur contorta, empatia. Vedeva nella ribellione di Ángela un riflesso della sua, e ammirava l’audacia. Ma, soprattutto, vedeva un’opportunità. Schierarsi dalla parte di Ángela era un modo sottile per guadagnarsi la gratitudine di Martina, di posizionarsi come un alleato sensibile e comprensivo di fronte alla tirannia di Leocadia. E indebolire Leocadia, minare la sua autorità morale all’interno della famiglia, era sempre una mossa vantaggiosa sulla scacchiera de La Promessa. Forse, persino, potrebbe usare questa situazione per fare pressione su Leocadia in altre questioni, usando l’opinione pubblica della famiglia contro di lei.
“Non osare paragonarti a mia figlia,” sibilò Leocadia, la sua voce bassa e carica di veleno. “Tu non hai mai fatto nulla che non fosse per il tuo egoistico interesse.”
“E tu?” contrattaccò Lorenzo, il suo sorriso scomparendo per lasciare il posto a una serietà tagliente. “Puoi dire onestamente che mandarla a Zurigo, a un esilio freddo e solitario, è per il suo bene e non per il tuo? Non sarà che il suo spirito ti risulta… scomodo? Troppo brillante, forse? Una minaccia al tuo controllo assoluto?”
La domanda colpì nel segno con precisione chirurgica. Per un istante fugace, Leocadia sembrò vacillare. Un barlume di una ferita antica, di una paura profonda, apparve nei suoi occhi prima di essere di nuovo sepolto sotto strati di ghiaccio.
“Non sai niente di me né di ciò che è meglio per mia figlia,” disse, girandosi e ponendo fine alla conversazione. “E ti sarei grata se ti tenessi fuori dai miei affari familiari.”
Lorenzo la osservò allontanarsi, la sua schiena dritta come un albero maestro. Non aveva logrado convincerla, ma non era questo il suo obiettivo principale. Aveva piantato un seme di dubbio, aveva mostrato le sue carte come un falso alleato della causa di Ángela, e si era goduto enormemente il processo. Il conflitto tra madre e figlia, lungi dall’essere un problema, era per lui un campo da gioco affascinante e pieno di opportunità.
Jacobo Arde di Risentimento e il Mistero di Rómulo
In un’altra ala del palazzo, la disperazione aveva un volto diverso. Martina, dopo aver lasciato Ángela alle cure temporanee di Curro, era tornata nei suoi alloggi per trovarsi di fronte a una tempesta di risentimento incarnata in suo marito, Jacobo. Lo trovò in piedi accanto al camino spento, stringendo e allentando i pugni, la mascella tesa.
“Dov’eri?” chiese lui senza guardarla, la sua voce aspra.
“Con Ángela,” rispose Martina, esausta. “È molto malata, Jacobo. Si sta consumando là fuori.”
Jacobo fece una risata secca, priva di umorismo. “Ah, certo. Tua cugina. C’è sempre qualcosa o qualcuno di più importante. Prima, la memoria di tuo padre e i suoi titoli. Ora, la tragedia della cuginetta sbandata. E io? Quando c’è tempo per me? Per la mia umiliazione?”
Martina lo guardò, il cuore stretto. Amava Jacobo, ma la sua amarezza stava diventando un veleno che contaminava tutto ciò che toccavano. “Jacobo, per favore. Non è il momento.”
“Certo che non è il momento!” esclamò lui, girandosi per affrontarla, i suoi occhi accesi di rabbia. “Non è mai il momento di parlare di come l’ombra del conte di Carvajal y Cifuentes mi annulli, mi trasformi in un semplice accessorio! Di come i tuoi genitori hanno manovrato affinché il titolo non potesse passare a me, il marito dell’erede! Sono un nessuno in questa famiglia, Martina. Un consorte decorativo. E a te sembra non importare minimamente.”
“Non è vero!” replicò lei, la sua stessa frustrazione che affiorava. “Mi importa, ma non posso cambiare il passato. Non posso riscrivere le leggi della nobiltà. Cosa vuoi che faccia?”
“Voglio che tu lotti per me!” urlò lui. “Voglio che tu dimostri che il mio onore ti importa tanto quanto il benessere di tua cugina o l’eredità di tuo padre! Voglio che tu affronti tuo zio, il marchese, che gli chieda il rispetto che merito! Ma non lo farai. Perché sei troppo occupata a spegnere gli incendi degli altri, mentre il nostro si consuma fino alle ceneri.”
Le sue parole erano ingiuste, ma nascevano da un dolore reale, da un senso di impotenza che Martina non sapeva come placare. Si sentiva intrappolata tra due fronti: la crisi di vita o di morte di Ángela e la crisi esistenziale di suo marito. La pressione la stava schiacciando. Cercò di avvicinarsi, di posargli una mano sul braccio, ma lui si scansò.
“Non toccarmi,” disse con freddezza. “Vai a salvare tua cugina. A quanto pare, è la tua unica priorità.”
Si diresse verso la porta, lasciandola sola nella stanza silenziosa e fredda. Martina si lasciò cadere su una poltrona, le lacrime che non aveva versato per Ángela ora scorrevano liberamente per il suo stesso dolore. Stava perdendo sua cugina per la crudeltà di una madre e, forse, stava perdendo suo marito per le catene di un’eredità che nessuno dei due aveva scelto.
Lontano dai drammi del piano nobile, nel trambusto e nel calore delle cucine e dei corridoi del servizio, un’altra voce cominciava a prendere forma. Era un sussurro, una corrente sotterranea di inquietudine che scorreva tra il personale. Si manifestava in sguardi furtivi, in conversazioni interrotte e in un generale sentimento di presagio. Il centro di questo turbine di speculazioni era Rómulo, il maggiordomo.
“Lo avete notato?” chiese Pía a Simona e Candela in un momento di calma, mentre sbucciavano patate. “È… diverso.”
“Distante,” annuì Simona, il suo saggio viso rugoso per la preoccupazione. “Come se una parte di lui non fosse più qui. Lo vedo quando dà gli ordini al mattino. I suoi occhi sono altrove.”
“Ieri l’ho visto in biblioteca,” aggiunse Mauro, che passava di lì con un vassoio d’argento. “Stava impacchettando alcuni dei suoi libri personali. Con molta attenzione, come se fosse per un lungo viaggio.”
Ogni piccola osservazione era un pezzo in più nel mosaico dell’imminente partenza. Rómulo, il pilastro de La Promessa, l’uomo che era l’incarnazione stessa della lealtà e del dovere, sembrava prepararsi ad abbandonare la nave. L’idea era così inconcepibile che nessuno osava pronunciarla ad alta voce, ma la paura che fosse vera aleggiava nell’aria, densa come il fumo.
Tuttavia, la prima persona a percepire la verità non fu uno dei suoi, non qualcuno che condivideva la sua quotidianità nel servizio. Fu qualcuno del piano nobile, qualcuno che, come Rómulo, capiva il linguaggio silenzioso del dovere e del sacrificio. Fu il marchese, don Alonso Luján.
Quella stessa sera, Alonso scese nel suo studio in cerca di un documento e trovò Rómulo lì, anche se non era stato chiamato. Il maggiordomo era di spalle alla porta, pulendo un vecchio mappamondo che era appartenuto al padre del marchese. I suoi movimenti non erano i soliti, efficienti ed energici. Erano lenti, deliberati, quasi cerimoniali. C’era una qualità di addio nel modo in cui la sua mano si scivolava sui continenti di cartapesta, come se stesse salutando non solo l’oggetto, ma il mondo che rappresentava.
Alonso non disse nulla. Rimase sulla soglia, osservando. Vide come Rómulo si fermava sulla penisola iberica, il suo dito che tracciava un percorso invisibile verso sud. Vide la leggera inclinazione della sua testa, la tensione nelle sue spalle che parlava di una decisione soppesata e dolorosa. In quel silenzio, Alonso comprese. Non aveva bisogno di parole, né di pettegolezzi, né di confessioni. Riconobbe nella postura del suo maggiordomo il peso di una risoluzione irrevocabile. Era la stessa sensazione che un capitano prova quando sa che il suo ufficiale più leale sta per chiedere lo sbarco definitivo.
Rómulo deve aver sentito la sua presenza, perché si fermò e si girò lentamente. I suoi occhi si incontrarono con quelli del marchese. Non ci fu sorpresa nel suo sguardo, solo una profonda e malinconica comprensione. “Signor marchese,” disse Rómulo, la sua voce tranquilla.
“Rómulo,” rispose Alonso, il suo tono ugualmente sereno.
Non fu detto altro. Alonso annuì leggermente, un gesto di riconoscimento, di rispetto per una decisione che non era ancora stata annunciata ma che era già un fatto compiuto tra loro. Poi, si girò e se ne andò, lasciando Rómulo solo con i suoi fantasmi e i suoi piani per il futuro. La conferma formale sarebbe arrivata a tempo debito, ma per il marchese, l’era di Rómulo a La Promessa era già finita. La notizia, quando fosse diventata ufficiale, sarebbe stata un colpo devastante per il morale del servizio, un’altra crepa nelle già indebolite fondamenta del palazzo.
L’Indecisione di Catalina e Adriano e i Sospetti del Duca
E mentre alcuni pianificavano la loro fuga e altri lottavano per rimanere, c’erano coloro che erano paralizzati dall’indecisione. In un angolo più tranquillo del palazzo, Catalina e Adriano continuavano a riflettere sulla proposta del duca di Cifuentes. L’offerta di investire nell’attività delle marmellate era generosa, un’opportunità d’oro per espandere l’impresa e garantirne la sostenibilità a lungo termine. Ma il prezzo era alto, non in denaro, ma in controllo.
“Continuo a pensare che sia un rischio cedergli così tanto potere decisionale,” diceva Adriano per l’ennesima volta, passeggiando per la stanza che condividevano. “Ci trasformerebbe nei suoi dipendenti, non nei suoi soci.”
“Saremmo soci minoritari, Adriano, ma soci comunque,” replicava Catalina, seduta a un tavolo pieno di carte e cifre. “L’iniezione di capitale ci permetterebbe di raggiungere mercati che ora sono impensabili. Potremmo esportare in tutta Europa! Pensa a cosa significherebbe per La Promessa, per il futuro della mia famiglia.”
La visione di Catalina era pragmatica e ambiziosa. Sentiva sulle sue spalle il peso di salvare il patrimonio familiare, una responsabilità che la consumava. Per lei, l’attività era l’unica via d’uscita dalla rovina. Adriano, invece, vedeva le cose da una prospettiva più personale. Aveva trovato nella piccola attività delle marmellate una parte di autonomia, un progetto condiviso con Catalina che era solo suo. L’ingresso di un duca potente minacciava di inghiottire quel piccolo mondo che tanto apprezzava.
“E a quale prezzo, Catalina?” insistette lui. “Il duca non è un filantropo. Vorrà risultati, e li vorrà in fretta. Ci imporrà i suoi metodi, la sua gente. Perderemo l’essenza di ciò che abbiamo creato, quella qualità artigianale che ci rende speciali.”
La loro prolungata indecisione non era passata inosservata. Quella stessa mattina, un messaggero del duca era arrivato a La Promessa. Non portava una lettera amichevole, ma una nota breve e tagliente. Il duca esprimeva la sua “sorpresa” per la mancanza di risposta e li informava che aveva altre opportunità di investimento che non avrebbe atteso indefinitamente. Era un ultimatum velato, un modo per fare pressione su di loro affinché prendessero una decisione.
La nota giaceva ora sul tavolo, una macchia d’inchiostro che irradiava impazienza. “Sta perdendo la pazienza,” disse Catalina, indicando il foglio. “E a ragione. Llevamos semanas dándole largas. Se non accettiamo, non solo perderemo l’opportunità, ma ci guadagneremo un nemico molto potente. Un duca offeso non è qualcosa che ci conviene.”
Adriano sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Si sentiva relegato, come se la sua opinione fosse un ostacolo nel grande piano di Catalina. Amava la sua spinta e la sua intelligenza, ma a volte il suo pragmatismo travolgeva tutto, incluse le sue stesse insicurezze.
“Sembra che tu abbia già preso una decisione,” disse a bassa voce, il suo tono tinto di rassegnazione.
Catalina lo guardò, accorgendosi finalmente della profondità del suo malcontento. Si alzò e si avvicinò a lui, prendendogli le mani. “No. Non l’ho presa. Non senza di te. Questo è nostro, Adriano. Tuo e mio. E non farò alcun passo se non siamo entrambi convinti. Ma dobbiamo decidere qualcosa. Il tempo sta scadendo.”
Il sole del pomeriggio cominciava a tramontare, tingendo il cielo di toni arancioni e viola. Per Catalina e Adriano, come per tutti a La Promessa, la notte si avvicinava, promettendo non un riposo, ma una veglia piena di decisioni critiche. Quel giovedì, 19 giugno, ogni abitante del palazzo, dal signorino che aveva rivelato la sua vera identità alla domestica che tremava di freddo nei giardini, si trovava di fronte al proprio abisso. Le verità erano state svelate, le alleanze messe alla prova e i fondamenti delle loro vite scossi fino al midollo. E la notte, lunga e piena di ombre, non avrebbe fatto altro che amplificare gli echi di un giorno che aveva cambiato per sempre il corso del loro destino. La promessa di una nuova alba non era mai sembrata così incerta.